lunedì 24 ottobre 2011

This Must Be the Place

This Must Be the Place, il nuovo film di Paolo Sorrentino, evoca una poetica e un'armonia che ti entra dentro e che in qualche modo non ti lascia più. L'ho voluto vedere appena presentato nelle sale, mi sono catapultata al cinema vuoi per la curiosità di ammirare Sean Penn interpretare un personaggio così inusuale vuoi anche per la grande stima che nutro per il regista.
Poi silenzio... non riuscivo a parlarne...


Come un enorme macigno che gettato in un lago sprofonda in un istante, pian pian mi sono raggomitolata su me stessa dentro alla mia poltroncina ed ho inziato a tirare fuori i primi fazzolettini.
Se qualcosa mi fa piangere generalmente attivo il misuratore estetico della bellezza creativa di un prodotto artistico... vuol dire che mi è piaciuto, mi ha toccato, mi ha punzecchiato nella parte più pigra del mio essere.
Sean Penn nei panni di Cheyenne, rock star tutto trucco e parrucco ormai ritiratosi dalle scene, si aggira per tutto il film con passi lentissimi, uno dopo l'altro fino a scalfirti dentro un andamento surreale, metafora di un'anima persa che sta ricercando se stessa.



Cheyenne viene presentato allo spettatore come un'anima fragile, nascosta dentro ad un corpo appariscente ormai svuotato di ogni vitalità ma caratterizzato da coloratissimi spruzzi di sarcasmo capaci di riequilibrare i ritmi poco commerciali del film.
Con la morte del padre, col quale il protagonista non ha rapporti da moltissimi anni, Cheyenne inizia un cammino introspettivo di redenzione e ricerca a caccia di un ex criminale nazista, persecutore di suo padre ai tempi in cui era stato internato in un campo di concentramento.  Un cammino che sulla linea del On the road presenta paesaggi mozzafiato, fotografia sublime di un'America di una bellezza quasi onirica, il tutto accompagnato dalle musiche nostalgiche e psichedeliche dei Talking Heads (da cui anche il titolo del film). 
Un viaggio di dolore, solitudine, analisi di se stessi e del proprio passato, sbrigliamento dei propri sensi di colpa (di quando nel pieno del successo la sua musica fu accusata di far deprimere e suicidare adolescenti), un percorso che passa tutto attraverso grandi occhi chiari, costante presente in quasi tutti i personaggi del film, che come una profonda voce BLU fuori campo, ti fa sprofondare in un'orbita impazzita in cui per riemergere puoi solo ritrovare te stesso (sembra quasi una citazione dello spazio infinito del Blue evocato nell'omonimo film di Derek Jarman).




La redenzione arriva a passi ancora più lenti sul calar del finale, nella scena che immortala l'ex criminale nazista sfilare  nudo e tremante sulla fredda neve, contemplato da Cheyenne che ormai risalito in macchina è pronto per tornare a casa.
"Qualcosa mi ha disturbato!"
LC